domenica 9 marzo 2014

Cucina e dintorni ...


Molto spesso la cucina è percepita come un semplice insieme di ingredienti, regole e tecniche per la preparazione del cibo ma in realtà è molto di più. In senso più esteso e al tempo stesso più specifico, la cucina può intendersi infatti come un sistema di presentazioni, credenze e usi condivisi da persone appartenenti alla medesima cultura o da un gruppo all'interno di questa. Pertanto la cucina non è soltanto un luogo fisico, destinato alle preparazioni culinarie, ma può essere intesa anche come un luogo sociale dove poter apportare le proprie credenze, istituzioni e dove dar conto di differenze sociali e di genere. Del resto, trasformando il cibo la cucina trasforma e organizza anche le società e così facendo svolge un ruolo importante nella storia.




Ogni cucina, civilizzata da proprie tecniche culinarie, persegue un fine comune: quello di trasformare un alimento “naturale” in qualcosa di diverso che, se non del tutto artificiale, è comunque costruito e manipolato dall'uomo. In questo processo gioca un ruolo fondamentale la cottura e di conseguenza il fuoco. Si pensa addirittura che la civiltà sia nata nel momento stesso in cui ciò che era crudo ha cominciato ad essere cotto.
Ogni cultura ha poi costruito o culturalmente modificato il concetto stesso di crudo in antitesi a quello di cotto a seguito della diffusione delle tecniche di cottura. Per questo motivo consideriamo la crudità di un alimento quando siamo soliti consumarlo culturalmente cotto, si pensi alla carne, mentre ne diamo per scontata la crudità quando nella nostra cultura siamo abituati a consumarlo crudo, come nel caso dell’insalata.
Per ogni cucina poi non vi è nulla che sia semplicemente cotto, occorre, infatti, specificare il modo di cottura, da qui ha origine l'opposizione tra l'arrosto è il bollito. Il primo è considerato, in genere, naturale in quanto il fuoco trasforma direttamente il cibo mentre il secondo è un processo culturale perché il fuoco è mediato da un utensile, un elemento artificiale costruito dall'uomo che nella maggior parte dei casi è la pentola: elemento culturale per antonomasia.
L'arrosto rientra quindi in quella che possiamo chiamare esocucina; una cucina pensata per essere condivisa con gli estranei e offerta ai propri ospiti, mentre il bollito rientra in quella che possiamo chiamare endocucina, una cucina ad uso domestico, familiare, intima rivolta ad un gruppo chiuso.
  Per certi aspetti la stessa agricoltura potrebbe considerarsi una forma di cottura; le zolle di terra infatti esposte al calore del sole fungerebbero da forno consentendo la maturazione delle sementi. È forse per questo motivo che all'interno della mitologia contadina si sviluppa la simbologia del forno considerato un luogo di passaggio attraverso cui il cibo passa da uno stato di natura ad uno stato di cultura.
Da subito il calore e il fuoco vengono percepiti come potenti strumenti culturali, limitati non solo ad una sfera alimentare ma anche a quella sociale. Nel momento stesso in cui il cibo viene consumato attorno al fuoco da un gruppo di persone diventa un elemento di condivisione e di aggregazione.
Tuttavia il calore e il fuoco sono strumenti necessari per la cottura ma non indispensabili per la cucina. Il cuocere e il cucinare non sempre coincidono, di fatto cucinare non consiste semplicemente nell’applicare il calore ad alimenti crudi rendendoli più commestibili, cambiandone sapore, bensì cucinare è un processo culturale e morale, attraverso il quale una materia grezza passa dallo stato di natura a quello di cultura. Questo passaggio può essere semplice come cogliere un frutto da un albero o tagliarlo con un coltello, oppure complesso come le creazioni dei più superbi chef. Perciò il cibo è civilizzato dall’arte culinaria non solo a livello di pratica ma anche a livello di fantasia.




Cucinare e condire un alimento equivale quindi ad adattare il cibo alla propria cultura, superare diffidenze e paure, rendere familiare qualcosa di insolito e di ignoto. Il cibo così addomesticato e civilizzato dall’azione mediatrice della cucina in generale, consente il superamento della contrapposizione tra neofobia e neofilia, tradizione e innovazione.
La cucina è uno strumento di costruzione dell’identità individuale e collettiva, di appartenenza ad una cultura, ma anche un insieme di saperi che sa far dialogare se non addirittura armonizzare ingredienti che talvolta possono sembrare tra loro distanti, rendendo possibile la creazione di un ambito di tolleranza nel quale maturano inaspettati incontri tra culture lontane che si scambiano prodotti, tecniche e tradizioni. La cucina così, spazio sociale in cui gli individui interagiscono e creano relazioni, diventa luogo creativo e al contempo rassicurante, rendendo inoltre possibile gestire quella costante tensione dell’uomo sospeso tra volontà di conservare le sue abitudini alimentari e desiderio di innovarle e rinnovarle.
In perenne ricerca di soluzioni che offrano una soddisfazione gusto-olfattiva ma che allo stesso modo diano al mangiatore la sicurezza o la convinzione di cibarsi di un piatto che possa esser percepito tradizionale, genuino, in qualche modo familiare, la cucina si pone come potente strumento di mediazione culturale che in parte colma o riduce le distanze tra le diverse culture attraverso un insieme di accorgimenti rassicuranti e consolatori. La cucina è, del resto, capace di operare una sorta di magia, di purificare il potenziale “veleno” contenuto in un cibo selvatico, naturale e grazie ai processi di adattamento, di sostituzioni, di sapiente aggregazione di ingredienti permette a molti cibi pur connotati territorialmente e culturalmente di entrare a far parte potenzialmente dell’alimentazione di chiunque, divenendo appetibili e culturalmente accettabili.


martedì 31 dicembre 2013

Cibi portafortuna, beneauguranti per salutare l’anno nuovo


Ormai mancano poche ore per dire addio al 2013 e dare il benvenuto al 2014, sperando sia un anno più fortunato di quello appena trascorso. Gran parte di noi sarà in giro col carrello tra gli scaffali del supermercato per gli acquisti last minut di qualche ingrediente o piatto da portare a tavola per la cena di stasera. Altri invece, magari i più intrepidi, saranno già indaffarati in cucina, intenti a preparare qualcosa di buono e di "tradizionale", altri ancora si limiteranno a sollevare la cornetta per prenotare in qualche ristorante più o meno alla moda.
In tutti i casi comunque nelle nostre tavole non dovrebbero mancare quei cibi che, per una ragione o per un’altra, sono diventati tipici del Capodanno. La giornalista di “Repubblica” Irma D’Aria ne ha preso in considerazione otto in un suo articolo che mi piace condividere con voi:

“8 cibi portafortuna da mangiare a Capodanno
 Lenticchie, mandarini, peperoncini, riso, ma anche melagrana, bietola, mano di Budda, sono gli alimenti che dovrebbero attrarre la buona sorte a Capodanno. Di sicuro, con le loro proprietà, attirano già la buona salute. Ecco come portarli in tavola in modo nuovo. E cosa invece evitare al Cenone.
 Tutti desideriamo che l'anno nuovo sia migliore di quello che sta per chiudersi e perfino le persone più razionali e quelle meno inclini alle superstizioni cedono alla tentazione di mettere a tavola lenticchie ed uva per non correre il rischio che soldi e fortuna non arrivino. Ma non sono gli unici cibi che attirano la buona sorte. Ce ne sono molti altri come il riso, la melagrana, ma anche le bietole e i peperoncini. Il bello è, poi, che si tratta di alimenti che fanno bene alla salute. Perciò, seguendo il detto "tentar non nuoce e al limite male non fa", ecco i cibi da mettere a tavola per Capodanno, perché portano fortuna, perché fanno bene e perché possono diventare degli inediti.
Lenticchie
Perché portano fortuna: con la loro forma tonda e appiattita ricordano le monete e perciò sulla tavola di Capodanno non possono mancare come auspicio di fortuna e ricchezza nell’anno che sta per iniziare. Ogni chicco di lenticchia corrisponde a una moneta, quindi più se ne mangiano più soldi arriveranno.
Perché fanno bene: le lenticchie sono, insieme con ceci, piselli e fagioli, i vegetali più ricchi di proteine e hanno (sia freschi che secchi) un alto contenuto di carboidrati. Ottima fonte di energia perché di elevato valore calorico, sono poveri di grassi e quindi indicati nelle diete ipolipidiche. Tra i loro pregi, inoltre, l'apporto di fosforo, ferro, vitamine del gruppo B e il contenuto in fibra alimentare.
Sacchetti porta-fortuna: oltre che mangiarle come contorno di cotechino e zampone, si possono preparare dei sacchettini porta-fortuna, con dei tulle per bomboniera da riempire con un pugnetto di lenticchie. Si legano con un nastrino in tinta e si appendono all’albero. Possiamo usarli anche come segnaposto per la tavola di San Silvestro.
 Riso
Perché porta fortuna: come le lenticchie, anche il riso con i suoi chicchi dovrebbe, secondo varie credenze, portare abbondanza per il prossimo anno. Oltre ad usarlo come ingrediente per le ricette, se ne può spargere una manciata sulla tavola oppure metterlo crudo in una ciotolina.
Perché fa bene: classico, nero, rosso, basmati, parboiled, integrale, di qualunque tipo sia, il riso è un alimento rinfrescante, disintossicante e ha un effetto blandamente astringente. Ha una digeribilità invidiabile, favorita dalla buona concentrazione di vitamina B. La sua permanenza nello stomaco è di circa di un’ora e quindi decisamente inferiore a quella di altri alimenti, come la pasta o la carne, che hanno bisogno anche di tre ore per venire digeriti. 
Riso in tasca: riponete in un sacchetto di panno verde sette chicchi di riso insieme a sette chicchi di melograno. Potete mettere i sacchetti sul tavolo o, se ci sono problemi d'amore, in camera da letto. Se, invece, vi vergognate e non volete sembrare troppo superstiziosi, potete sempre salutare l'anno nuovo con le tasche piene di riso: così nessuno se ne accorgerà!
 Bietola
Perché porta fortuna: molti popoli oltreoceano mettono in tavola per l’ultimo dell’anno verdure a foglia verde come le bietole, che ricordano i “verdoni”, quindi proprio i soldi. In Germania, Stati Uniti e Irlanda, invece, il cavolo è associato al denaro, forse per via del colore verde del “dollaro”.
Perché fanno bene: quasi totalmente priva di grassi, la bietola è ricca di acqua, vitamina A, K, C, beta carotene, magnesio, ferro e potassio. Ha, dunque, proprietà rinfrescanti, lassative, emollienti ed antianemiche. Fornisce appena 25 calorie per 100 grammi e rappresenta dunque un ottimo alimento da consumare durante le diete dimagranti.
Insieme ai fiori: se a Capodanno proprio non vi va di mangiare la bietola, ma non volete rinunciare al rito propiziatorio mettere delle foglie insieme a dei fiori in un vaso al centro della tavola, daranno un tocco nuovo al solito bouquet.
Mandarini
Perché portano fortuna. Oltre a ricordare l'idea del denaro, il tondo è simbolo di eternità e buon auspicio per una lunga vita. Perciò, tutti gli agrumi sono considerati portafortuna. Il mandarino cinese forse perché ha la forma di acini d'uva  e/o per il colore brillante che lo fa sembrare d'oro, è ritenuto un validissimo portafortuna.
Perché fanno bene: la buccia è piena di limonene (principio antiossidante) che ha la caratteristica di ritardare l'invecchiamento della pelle.  Sempre dalla buccia si estrae un olio essenziale in grado di calmare l’ansia e combattere insonnia e ritenzione idrica. Molto ricco di vitamina C, essenziale per mantenere reattivo e vigile il cervello, il mandarino è anche ricco di fibre e carotene e possiede anche molte vitamine del gruppo B e vitamina A, oltre che una consistente percentuale di ferro, magnesio e acido folico. 
Segnaposto personalizzati: invece del solito rosso, a Capodanno si può “vestire” la tavola con i colori dell’arancio che, tra l’altro, dona energia. Dalla tovaglia ai fiori ai centrotavola, tutto può richiamare il colore degli agrumi portafortuna. E con i mandarini si possono creare dei segnaposto personalizzati e profumati disegnando le iniziali di ciascun ospite con i chiodi di garofano.
Uva
Perché porta-fortuna: simboleggia l’abbondanza e per questo non manca mai sulle tavole di Capodanno. Un antico proverbio, infatti, recita: “chi mangia l'uva per Capodanno conta i quattrini tutto l'anno”. Secondo alcune tradizioni, ogni acino d'uva rappresenta un mese diverso, quindi se, per esempio, il terzo chicco d'uva è un po' acido, marzo potrebbe essere un mese “rognosetto”.
Perché fa bene: è composta da pochissimi grassi e proteine, ma ricca di fibre, calcio, magnesio, ferro, potassio e di vitamina A, vitamina B e vitamina C. Discreto è il suo contenuto di acido folico. Inoltre, l'uva ha molti effetti positivi sul nostro organismo: svolge un'azione disintossicante, depurativa, diuretica, antiossidante, antinfiammatoria; aiuta a ridurre il colesterolo e a fluidificare il sangue, migliorando la circolazione.
Chicchi e rintocchi di campana: in Spagna il rito portafortuna per l'anno che inizia prevede che si mangino 12 chicchi d'uva al ritmo dei dodici rintocchi delle campane a mezzanotte, chi riesce a mangiarli seguendo i rintocchi avrà soldi e fortuna. Per evitare l'assalto alla fruttiera, può essere un gesto simpatico e gradito preparare i chicchi già contati in coppette individuali, da mettere in tavola un attimo prima del conto alla rovescia.
Melagrana
Perché porta-fortuna: la mitologia greca narra che il melograno sia una pianta sacra per Giunone e per Venere. Ancora oggi viene ritenuto simbolo di fertilità e ricchezza per i suoi gustosi “grani” rossi che in cucina possono essere impiegati in numerosi modi. Il loro succo ha un sapore molto dolce, ideale per preparare confetture e per condire anche risotti, primi piatti e insalate
Perché fa bene: dal punto di vista nutrizionale, è particolarmente ricco di vitamina A e B ed il suo succo sembra giovare al buon mantenimento dell'apparato cardiovascolare. Un nuovo studio condotto dai ricercatori spagnoli dell’Istituto Catalano di Scienze Cardiovascolari e presentato al Congresso della Società Europea di Cardiologia, ha infatti dimostrato che contiene delle sostanze attive nel mantenere in salute le arterie, l’apparato cardiocircolatorio in genere, e allontanare il rischio di malattie cardiache, infarto e ictus.
Bollicine di Natale: spremete il succo del melograno e aggiungetene un cucchiaio a un calice di spumante e decorate con alcuni chicchi intatti. Una buona idea è anche quella di comprare o farsi regalare un piccolo alberello di melograno da mettere sul balcone, per invitare la fortuna a restare con noi per tutto l’anno e anche oltre se abbiamo il pollice verde.
 Peperoncini
Perché porta-fortuna: rigorosamente rossi sono fondamentali per scacciare la cattiva sorte. Il loro effetto scaramantico è  legato al colore associato al loro fuoco interno e alla forma appuntita capace di distruggere il cosiddetto “ malocchio”.
Perché fa bene: Atzechi, Maya e Inca lo utilizzavano già come rimedio medicinale ed anche oggi le migliaia di specie del Capsicum annuum hanno riconosciute proprietà mediche. Nel suo frutto, infatti, sono presenti capsaicina, flavonoidi, oli essenziali, carotenoidi, cellulosa, calcio e ferro. Il contenuto in vitamina C (fino a 340 mg/100 gr) è maggiore rispetto a qualsiasi altro frutto e sono presenti in quantità significativa anche le vitamine A, K, e B.
Cornetti da indossare: oltre che usarlo per dare “carattere” alle pietanze del cenone, i peperoncini sono belli anche come elemento decorativo magari per creare un centro-tavola portafortuna. Oppure possiamo indossarli: peperoncini e cornetti portafortuna, infatti, vengono utilizzati e reinterpretati sempre più spesso dalle più famose maison di moda all’interno delle loro collezioni di gioielli. Givenchy, per esempio, propone i suoi preziosi orecchini a forma di corno ricoperti di cristalli Swarovski.
 Mano di Budda
Perché porta-fortuna: è un frutto originario di Cina, Giappone e India ma la pianta si trova anche in alcuni vivai italiani. Si tratta di una specie di agrume, per la precisione di una varietà di cedro i cui spicchi danno origine ad un frutto dalla forma tondeggiante, ma si diramano formando dei prolungamenti molto simili a delle dita. In Cina e in Giappone, dove il frutto viene considerato come un portafortuna, viene solitamente regalato agli ospiti in segno di buon augurio proprio il giorno di Capodanno perché è considerato un simbolo capace di portare prosperità, fertilità e longevità.
Perché fa bene: in Cina viene spesso prescritto come tonico e stimolante per l'organismo. E' inoltre un frutto particolarmente dietetico, poiché fornisce un bassissimo apporto calorico ed è del tutto privo di grassi.
Centro-tavola profumato: la Mano di Budda può essere consumato crudo o utilizzato per la preparazione di marmellate. Questo singolare frutto viene anche utilizzato semplicemente per la propria scorza, che viene affettata in maniera molto sottile o tritata ed utilizzata come ingrediente aggiuntivo in numerose preparazioni sia dolci che salate. Poiché è molto profumato, si può mettere al centro della tavola di Capodanno.
 Cosa non mangiare a Capodanno
Oltre agli alimenti porta fortuna che non devono assolutamente mancare sulla tavola di Capodanno, ce ne sono anche un paio che sarebbe meglio evitare: l'aragosta, per esempio, perché i granchi camminano all’indietro e sono, perciò, simbolo di arresto al progresso e al miglioramento e piatti a base di qualsiasi volatile, perché altrimenti la fortuna potrebbe volare via!”



lunedì 30 dicembre 2013

Pan grande. Pan de Toni, Pan di tono, Pan de oro...



Il panettone e il pandoro sono oggi tra i dolci di Natale più diffusi nel nostro paese e non solo. Il consumatore oltre ad apprezzare il gusto e il sapore di questi prodotti che l’industria dolciaria ha portato sulle tavole di tutti gli italiani prima e su quelle di mezzo mondo poi, li predilige ad altri perché li avverte come tradizionali, tipici e dunque genuini. Del resto, l’usanza di confezionare pani dolci votivi e benaugurali in occasione delle feste legate al solstizio invernale è molto antica e rimanda alle popolazioni Celtiche che abitavano il nord Italia. In origine era un pane impastato con farina, frutta secca e miele, da regalare e consumare come segno di una nuova stagione di abbondanza e ricchezza.
Con l’avvento del Cristianesimo il Natale, la ricorrenza della nascita del Redentore, soppiantò le feste pagane invernali, ma quei dolci continuarono ad essere comunque preparati in ambito familiare. Presero il nome di  “pan grande“ e venivano consumati al rientro dalla messa di mezzanotte secondo un rituale che affidava al membro più anziano l’onore del taglio e destinava una fetta al primo povero che avesse bussato alla porta. Tuttavia quel pane dolce manteneva ancora la forma di una grossa pagnotta ed era meno lievitato del panettone attuale i cui più diretti progenitori potrebbero ritrovarsi nel Medioevo, nei territori sottoposti alla Signoria degli Sforza. Esistono almeno tre le leggende in merito, una relativa alla disavventura di un pasticcere, che per ovviare a un’infelice infornata porta in tavola il “Pan de Toni“, il dolce improvvisato dal garzone Antonio; la seconda racconta di una storia d’amore contrastata, quella tra Ughetto degli Atellani, falconiere di Ludovico il Moro, e la bella Adalgisa, figlia di un fornaio, che riescono a convolare a nozze grazie all'invenzione di un “Pan di tono” condito con ingredienti sopraffini, e infine quella di suor Ughetta (ugheta, come uva passa) che sostentava i poveri e rallegrava le sorelle del proprio convento grazie agli introiti della sua attività di pasticcera.
In Lombardia (come in altre parti d’Italia), in concomitanza con la preparazione del panettone, era uso anche bruciare il ciocco natalizio, che doveva bruciare un po’ ogni sera durante i 12 giorni natalizi fino all'Epifania. Dodici giorni, simbolo dei 12 mesi dell’anno, in analogia con il sole (e poi il Cristo) che, nato al solstizio d’inverno, avrebbe nutrito la terra per un anno intero. Per questo si diceva “Domani è il giorno del pane” e si consumavano dolci a base di farina, uvetta e canditi, dei quali il panettone è oggi il più famoso. L’usanza è diffusa in tutta Europa: in Francia si usa preparare nelle campagne il pain de Calandre. Poi se ne taglia nella parte superiore un pezzetto sul quale vengono incise tre o quattro croci: è un talismano – dicono i contadini dell’Avernia – capace di guarire da molti mali. Il resto del pain de Calandre viene mangiato da tutta la famiglia. In Inghilterra i fornai regalavano ai clienti una focaccia beneaugurale, detta Christmas-batch, non diversamente da quelli lombardi che, prima della commercializzazione moderna, offrivano il panettone a Natale.
Il panettone che oggi conosciamo, presente sulle nostre tavole natalizie, ha una datazione più tarda, collocabile intorno all'Otto-Novecento, frutto della competizione tra le “offellerie” milanesi più di moda, Biffi e Cova (le antenate delle moderne pasticcerie; da “offa“, parola usata per indicare delle focaccette dolci sfornate per allietare le feste. L’offelliere era l’artigiano che realizzava queste specialità dolci, distinto dal fornaio che, un tempo, si occupava esclusivamente di panificare).
Paolo Biffi realizzò un enorme panettone per Pio IX al quale lo spedì con una carrozza speciale nel 1847. Golosi del pan del ton sono stati molti personaggi storici: dal Manzoni al principe austriaco Metternich, quest'ultimo parlando delle "cinque giornate" disse dei milanesi: "Sono buoni come i panettoni". 
Il panettone era ancora fino ad allora per lo più basso dell’attuale, nasce basso, ma crebbe in altezza grazie alla voglia di distinguersi di Angelo Motta: è a lui che negli anni Trenta del XX secolo si deve lo slancio in verticale dell’impasto in lievitazione costringendolo in un pirottino di carta da forno (la competizione poi si stabilirà tra lui e Alemagna).
Quale sia la sua origine, questo dolce veniva prodotto a Milano tutto l’anno in formato ridotto, solo a Natale raggiungeva un peso superiore ai 500 gr. Il Cherubini infatti scriveva che “grande di una o più libbre sogliamo farlo soltanto per Natale, di pari o simil pasta, ma in pannellini si fa tutto l’anno dagli offellai e lo chiamano panattonin“.
Una tradizione ancora viva in Lombardia associa il giorno dedicato a S. Biagio (3 febbraio) al panettone. In occasione di questa festa si offrono fette di panettone leggermente tostate e cosparse di zucchero a velo (o bagnate nel vino), in ricordo di un miracolo del santo che curò un bambino morente a causa di una spina di pesce che gli si era conficcata nella gola. S. Biagio fece ingoiare al bambino una grossa mollica di pane che portò via la spina, salvando così la vita al piccolo. Da qui la tradizione di serbare il panettone di Natale fino al giorno di S. Biagio, perché sicuri che se mangiato in tale data il dolce preservasse dal mal di gola.
Anche la storia del pandoro, golosità veronese, è ricca di aneddoti e leggende. L'attuale versione del pandoro risale all'Ottocento come evoluzione del "nadalin", il duecentesco dolce della città di Verona. Il suo nome e alcune delle sue peculiarità risalirebbero invece ai tempi della Repubblica Veneziana dove sembra fra l'offerta di cibi ricoperti con sottili foglie d'oro zecchino, ci fosse anche un dolce a forma conica chiamato "pan de oro". Un'altra storia assegna la maternità del pandoro alla famosa brioche francese, che per secoli ha rappresentato il dessert della corte dei Dogi. In ogni caso c'è una data che sanziona ufficialmente la nascita del pandoro, il 14 ottobre 1884, giorno in cui Domenico Melegatti depositò all'ufficio brevetti un dolce dall'impasto morbido e dal caratteristico stampo di cottura con forma di stella troncoconica a otto punte, opera dell'artista Dall'Oca Bianca, pittore impressionista.


martedì 24 dicembre 2013

Il cibo delle feste e dei ricordi


Buona Vigilia a tutti. Che possa essere un Natale sereno, divertente e spumeggiante, da condividere a tavola con i vostri cari, con chi amate e con chi sopportate. Il cibo ha un grande potere evocativo, ci lega a luoghi, a emozioni, a persone. In questi giorni di festa fotografate, postate e condividete con me un piatto, una ricetta, uno spuntino, un cibo legato ad un momento felice, a un ricordo piacevole o anche a una dolcissima malinconia. Raccontate il vostro piatto dei ricordi, quello che vi fa star bene e a cui ricorrete quando avete bisogno di tornare con la mente in un determinato luogo.
Facendolo, magari potrete assaporare quel piacere inaspettato che può scaturire dalla riscoperta di un cibo della memoria legato a quei profumi e a quei sapori dell’infanzia, così come scrive Marcel Proust ne suo libro À la recherche du temps perdu, capolavoro letterario del Novecento, descrive con parole eterne il suo incontro con le madlennes :

 «Ed ecco, macchinalmente, oppresso dalla giornata grigia e dalla previsione d'un triste domani, portai alle labbra un cucchiaino di tè, in cui avevo inzuppato un pezzo di «maddalena». Ma, nel momento stesso che quel sorso misto a briciole di focaccia toccò il mio palato, trasalii, attento a quanto avveniva in me di straordinario. Un piacere delizioso m'aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. M'aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, le sue calamità, la sua brevità illusoria, nel modo stesso che agisce l'amore, colmandomi d'un'essenza preziosa: o meglio quest'essenza non era in me. era me stesso. Avevo cessato di sentirmi mediocre, contingente, mortale. Donde m'era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo ch'era legata al sapore del tè e della focaccia, ma la sorpassava incommensurabilmente, non doveva essere della stessa natura. Donde veniva? Che significava? Dove afferrarla?».


Ecco alcuni cibi giunti sulla mia tavola la sera della  vigilia :-) ; cozze gratinate, croissants salati, l'immancabile maialetto arrosto e dulcis in fundo tronchetto e pandoro farcito :-D









De gustibus non est disputandum …



In genere pensiamo che si scelga cosa mangiare in base ai propri gusti personali o alle volubilità individuali, ma in realtà il gusto non è altro che il risultato di tutto un insieme di condizionamenti culturali, di fattori esterni e di esperienze legate ad un particolare contesto socio-economico, alle diverse tradizioni e alle abitudini che va ben oltre il sapore dei cibi stessi. Per queste ragioni i gusti non sono innati, istintivi o vagliati criticamente o coscientemente, bensì sono una costruzione sociale e culturale formatasi progressivamente. Ecco perché, nella maggior parte dei casi, noi andremmo a scegliere i nostri alimenti dentro un paniere ben delimitato, preferendo quei cibi che, sin dall’infanzia, nostra madre ci ha fatto conoscere e insegnato a mangiare durante lo svezzamento. Attraverso questo processo sociale e culturale nostra madre, mater et magistra, ci trasmette quei saperi e sapori caratteristici del gruppo sociale di appartenenza traghettandoci così da uno stato di natura ad uno stato di cultura. Questo trasferimento di saperi, di sapori e consuetudini alimentari si nutre di gesti abitudinari che in quanto tali, diventeranno familiari, genuini e quindi rassicuranti e al contempo carichi di simboli impiegati per costruire e comunicare regole sociali, gerarchie fra gli individui e i diversi gruppi all’interno di una medesima società. In questo modo i cibi che abbiamo imparato a conoscere sin da piccoli nel rassicurante ambiente domestico, ci trasmetteranno più sicurezza e piacere gustativo di altri perché conditi di ricordi, di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita. Pertanto un cibo per esser considerato appetibile non deve essere solo buono da mangiare ma anche e soprattutto buono da pensare. Per questa ragione, tutto quello che è lontano da quel rassicurante insieme di esperienze alimentari che ciascuno di noi ha avuto, produce di norma pregiudizio, diffidenza o addirittura paura, rifiuto e disgusto.
Un cibo sarà così ritenuto tanto immangiabile quanto più distante dalla nostra familiarità, dai nostri ricordi, dalle nostre esperienze, dalle sicurezze offerte dalla nostra cultura. Del resto, pensare gli alimenti significa sceglierli, ordinarli e classificarli secondo categorie culturalmente definite ed eventuali disgusti possono essere disordini classificatori fra alimenti e categorie implicite nelle nostre culture, religioni e sistemi di credenze.
La paura e la diffidenza nei confronti di un cibo sconosciuto è dunque comprensibile perché la persona stessa si costruisce mangiando e diventa ciò di cui si nutre: siamo ciò che mangiamo e incorporando il cibo noi assimiliamo il mondo. Dal punto di vista immaginario, infatti, l’alimento ingerito ci modifica dall’interno. Introdurre nel nostro corpo un alimento significa incorporare parte o tutte le proprietà dell’alimento stesso che in questo modo contribuisce a costruire la nostra identità individuale e collettiva, contrassegnando l’appartenenza a una cultura o a un gruppo. Nelle società primitive, per esempio, i guerrieri non mangiavano il coniglio, per timore di perdere il proprio coraggio, vedendo questo animale come simbolo di codardia, mentre ancora oggi la carne rossa è sinonimo di vigore. Emerge pertanto che l’uomo, pur potendo teoricamente e fisiologicamente mangiare quasi tutto, privilegia determinati alimenti e ne vieta o rende indesiderabili altri. In questo suo atteggiamento si può leggere una sorta di paradosso di tipo psicologico, comportamentale e cognitivo che risiede nell’oscillazione tra prudenza, paura dell’ignoto, resistenza all’innovazione (neofobia) e tendenza all’esplorazione, bisogno del cambiamento, della novità, della varietà (neofilia). Il richiamo verso un nuovo alimento genera in noi un senso di ansia, un’angoscia che può però esser superata grazie all’azione mediatrice della cucina.

sabato 21 dicembre 2013

Cultura che nutre


Noi in teoria potremmo mangiare tutto ciò che è commestibile però perché non lo facciamo? Perché mangiamo certe cose e altre no? Nel nostro paese per esempio, in generale, non mangiamo insetti, cani, gatti, roditori etc., però ci nutriamo di cibi che altrove possono provocare disgusto. Pensiamo per esempio alle lumache, alle rane, ai molluschi vivi, interiora di vari animali, testina di vitello, rognoni, animelle, fegato, zampe, orecchie, codini, formaggi puzzolenti e addirittura con i vermi (casu marzu) o semplicemente anche alla carne di cavallo e di coniglio che possono nauseare alcune culture come quella anglosassone.
Si tratta solo di una questione di gusto, di un problema di tossicità oppure l’immangiabile corrisponde ad una definizione oggettiva? Secondo un senso comune, noi mangiamo certi alimenti perché sono facilmente reperibili, a portata di mano e perché ci piacciono. Quindi, ad una prima analisi, disponibilità, rispondenza ai nostri gusti individuali e fattori economici sembrerebbero condizionarci al consumo di un particolare cibo.
Questi fattori sono indubbiamente molto rilevanti nel determinare i comportamenti alimentari dei singoli e della collettività, ma da soli non bastano a dar conto della loro complessità. Le nostre scelte alimentari non sarebbero da considerarsi tali, in quanto si tratterebbe di comportamenti, in un certo senso, “obbligati”, posti entro una varietà limitata di opzioni determinate da modelli culturali inavvertibili ma potenti.
Subentrano poi anche l’abitudine, frutto della necessità, la saggezza del corpo che ci insegna a distinguere ciò che giova da ciò che nuoce al nostro organismo, ma soprattutto entrano in gioco considerazioni che esulano dalla sfera prettamente materiale o culinaria. L’atto del nutrirsi, infatti, essendo essenziale alla nostra vita e alla nostra esistenza sulla terra, ha senza alcun dubbio carattere fisiologico e materiale, ma allo stesso tempo è fortemente carico di significati sociali e simbolici.
Tralasciando i casi in cui è la mera sussistenza a dettare ciò che si deve mangiare, il cibo cessa di essere solo un bisogno fisiologico e diventa necessità culturale. Non è più soltanto sostentamento per il corpo ma diviene anche nutrimento per l’anima. Per queste ragioni si può affermare che il cibo e quindi l’alimentazione in generale possano esser intesi come fatto sociale culturale e anche morale.

Per iniziare ...


Oggi il cibo è diventato un argomento di gran moda, di conversazione, è molto chic saper cucinare, conoscere i vini, avere l'immagine del gourmet. In rete poi si trovano tantissimi blog sulla cucina, blog che spaziano dalle semplici ricette alle più sofisticate preparazioni gastronomiche. Tuttavia su questo terreno ci sono ancora immense praterie inesplorate perché spesso, riviste, blog trasmissioni televisive e libri, magari di successo, mettono in secondo piano la storia e la cultura del cibo. Si rischia così che tutto, il più delle volte, si risolva nelle ricette, nei mille ricettari, nelle imprese di cuochi e magari nelle frivolezze e nelle polemiche della cucina molecolare, dimenticandoci in realtà che il cibo e la sua trasformazione sono un elemento centrale della nostra cultura materiale, legati strettamente alla storia dell'umanità. Proprio da queste considerazioni voglio partire per realizzare un blog, uno spazio in cui pensare e considerare, in maniera diversa, in una ottica nuova, ciò che mangiamo, come lo facciamo e con chi, riflettendo sulle simbologie ed i significati che un piatto porta con sé, scoprendo la cultura racchiusa nella cucina.