Noi
in teoria potremmo mangiare tutto ciò che è commestibile però perché non lo facciamo?
Perché mangiamo certe cose e altre no? Nel nostro paese per esempio, in
generale, non mangiamo insetti, cani, gatti, roditori etc., però ci nutriamo di
cibi che altrove possono provocare disgusto. Pensiamo per esempio alle lumache,
alle rane, ai molluschi vivi, interiora di vari animali, testina di vitello,
rognoni, animelle, fegato, zampe, orecchie, codini, formaggi puzzolenti e
addirittura con i vermi (casu marzu) o semplicemente anche alla carne di
cavallo e di coniglio che possono nauseare alcune culture come quella anglosassone.
Si
tratta solo di una questione di gusto, di un problema di tossicità oppure
l’immangiabile corrisponde ad una definizione oggettiva? Secondo un senso
comune, noi mangiamo certi alimenti perché sono facilmente reperibili, a
portata di mano e perché ci piacciono. Quindi, ad una prima analisi,
disponibilità, rispondenza ai nostri gusti individuali e fattori economici
sembrerebbero condizionarci al consumo di un particolare cibo.
Questi
fattori sono indubbiamente molto rilevanti nel determinare i comportamenti
alimentari dei singoli e della collettività, ma da soli non bastano a dar conto
della loro complessità. Le nostre scelte alimentari non sarebbero da
considerarsi tali, in quanto si tratterebbe di comportamenti, in un certo
senso, “obbligati”, posti entro una varietà limitata di opzioni determinate da
modelli culturali inavvertibili ma potenti.
Subentrano
poi anche l’abitudine, frutto della necessità, la saggezza del corpo che ci
insegna a distinguere ciò che giova da ciò che nuoce al nostro organismo, ma
soprattutto entrano in gioco considerazioni che esulano dalla sfera prettamente
materiale o culinaria. L’atto del nutrirsi, infatti, essendo essenziale alla
nostra vita e alla nostra esistenza sulla terra, ha senza alcun dubbio
carattere fisiologico e materiale, ma allo stesso tempo è fortemente carico di
significati sociali e simbolici.
Tralasciando i casi in cui è la mera
sussistenza a dettare ciò che si deve mangiare, il cibo cessa di essere solo un
bisogno fisiologico e diventa necessità culturale. Non è più soltanto
sostentamento per il corpo ma diviene anche nutrimento per l’anima. Per
queste ragioni si può affermare che il cibo e quindi l’alimentazione in
generale possano esser intesi come fatto sociale culturale e anche morale.
Soddisfacendo il necessario bisogno di "far crescere", il cibo diventa strumento estatico di accostamento al divino. La nostra cultura cristiana concentra nel cibo il più alto momento di vicinanza divina. Ogni territorio si ciba di ciò che possiede e lo elabora nel tempo analogamente a quanto fa con le proprie norme di comportamento.
RispondiEliminaMolto molto interessante! Bravo Cris
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