martedì 24 dicembre 2013

De gustibus non est disputandum …



In genere pensiamo che si scelga cosa mangiare in base ai propri gusti personali o alle volubilità individuali, ma in realtà il gusto non è altro che il risultato di tutto un insieme di condizionamenti culturali, di fattori esterni e di esperienze legate ad un particolare contesto socio-economico, alle diverse tradizioni e alle abitudini che va ben oltre il sapore dei cibi stessi. Per queste ragioni i gusti non sono innati, istintivi o vagliati criticamente o coscientemente, bensì sono una costruzione sociale e culturale formatasi progressivamente. Ecco perché, nella maggior parte dei casi, noi andremmo a scegliere i nostri alimenti dentro un paniere ben delimitato, preferendo quei cibi che, sin dall’infanzia, nostra madre ci ha fatto conoscere e insegnato a mangiare durante lo svezzamento. Attraverso questo processo sociale e culturale nostra madre, mater et magistra, ci trasmette quei saperi e sapori caratteristici del gruppo sociale di appartenenza traghettandoci così da uno stato di natura ad uno stato di cultura. Questo trasferimento di saperi, di sapori e consuetudini alimentari si nutre di gesti abitudinari che in quanto tali, diventeranno familiari, genuini e quindi rassicuranti e al contempo carichi di simboli impiegati per costruire e comunicare regole sociali, gerarchie fra gli individui e i diversi gruppi all’interno di una medesima società. In questo modo i cibi che abbiamo imparato a conoscere sin da piccoli nel rassicurante ambiente domestico, ci trasmetteranno più sicurezza e piacere gustativo di altri perché conditi di ricordi, di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita. Pertanto un cibo per esser considerato appetibile non deve essere solo buono da mangiare ma anche e soprattutto buono da pensare. Per questa ragione, tutto quello che è lontano da quel rassicurante insieme di esperienze alimentari che ciascuno di noi ha avuto, produce di norma pregiudizio, diffidenza o addirittura paura, rifiuto e disgusto.
Un cibo sarà così ritenuto tanto immangiabile quanto più distante dalla nostra familiarità, dai nostri ricordi, dalle nostre esperienze, dalle sicurezze offerte dalla nostra cultura. Del resto, pensare gli alimenti significa sceglierli, ordinarli e classificarli secondo categorie culturalmente definite ed eventuali disgusti possono essere disordini classificatori fra alimenti e categorie implicite nelle nostre culture, religioni e sistemi di credenze.
La paura e la diffidenza nei confronti di un cibo sconosciuto è dunque comprensibile perché la persona stessa si costruisce mangiando e diventa ciò di cui si nutre: siamo ciò che mangiamo e incorporando il cibo noi assimiliamo il mondo. Dal punto di vista immaginario, infatti, l’alimento ingerito ci modifica dall’interno. Introdurre nel nostro corpo un alimento significa incorporare parte o tutte le proprietà dell’alimento stesso che in questo modo contribuisce a costruire la nostra identità individuale e collettiva, contrassegnando l’appartenenza a una cultura o a un gruppo. Nelle società primitive, per esempio, i guerrieri non mangiavano il coniglio, per timore di perdere il proprio coraggio, vedendo questo animale come simbolo di codardia, mentre ancora oggi la carne rossa è sinonimo di vigore. Emerge pertanto che l’uomo, pur potendo teoricamente e fisiologicamente mangiare quasi tutto, privilegia determinati alimenti e ne vieta o rende indesiderabili altri. In questo suo atteggiamento si può leggere una sorta di paradosso di tipo psicologico, comportamentale e cognitivo che risiede nell’oscillazione tra prudenza, paura dell’ignoto, resistenza all’innovazione (neofobia) e tendenza all’esplorazione, bisogno del cambiamento, della novità, della varietà (neofilia). Il richiamo verso un nuovo alimento genera in noi un senso di ansia, un’angoscia che può però esser superata grazie all’azione mediatrice della cucina.

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