In genere pensiamo che si scelga cosa mangiare in base ai
propri gusti personali o alle volubilità individuali, ma in realtà il gusto non
è altro che il risultato di tutto un insieme di condizionamenti culturali, di
fattori esterni e di esperienze legate ad un particolare contesto
socio-economico, alle diverse tradizioni e alle abitudini che va ben oltre il
sapore dei cibi stessi. Per queste ragioni i gusti non sono innati, istintivi o
vagliati criticamente o coscientemente, bensì sono una costruzione sociale e
culturale formatasi progressivamente. Ecco perché, nella maggior parte dei
casi, noi andremmo a scegliere i nostri alimenti dentro un paniere ben delimitato,
preferendo quei cibi che, sin dall’infanzia, nostra madre ci ha fatto conoscere
e insegnato a mangiare durante lo svezzamento. Attraverso questo processo
sociale e culturale nostra madre, mater et magistra, ci trasmette quei
saperi e sapori caratteristici del gruppo sociale di appartenenza traghettandoci
così da uno stato di natura ad uno stato di cultura. Questo trasferimento di saperi, di sapori e consuetudini alimentari
si nutre di gesti abitudinari che in quanto tali, diventeranno familiari,
genuini e quindi rassicuranti e al contempo carichi di simboli impiegati per
costruire e comunicare regole sociali, gerarchie fra gli individui e i diversi
gruppi all’interno di una medesima società. In questo modo i cibi che abbiamo
imparato a conoscere sin da piccoli nel rassicurante ambiente domestico, ci
trasmetteranno più sicurezza e piacere gustativo di altri perché conditi di
ricordi, di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i
nostri primi anni di vita. Pertanto un cibo per esser considerato appetibile non
deve essere solo buono da mangiare ma anche e soprattutto buono da pensare. Per
questa ragione, tutto quello che è lontano da quel rassicurante insieme di
esperienze alimentari che ciascuno di noi ha avuto, produce di norma
pregiudizio, diffidenza o addirittura paura, rifiuto e disgusto.
Un cibo sarà così ritenuto tanto immangiabile quanto più
distante dalla nostra familiarità, dai nostri ricordi, dalle nostre esperienze,
dalle sicurezze offerte dalla nostra cultura. Del resto, pensare gli alimenti
significa sceglierli, ordinarli e classificarli secondo categorie culturalmente
definite ed eventuali disgusti possono essere disordini classificatori fra
alimenti e categorie implicite nelle nostre culture, religioni e sistemi di
credenze.
La paura e la diffidenza nei confronti di un cibo
sconosciuto è dunque comprensibile perché la persona stessa si costruisce
mangiando e diventa ciò di cui si nutre: siamo ciò che mangiamo e incorporando
il cibo noi assimiliamo il mondo. Dal punto di vista immaginario, infatti, l’alimento
ingerito ci modifica dall’interno. Introdurre nel nostro corpo un alimento
significa incorporare parte o tutte le proprietà dell’alimento stesso che in
questo modo contribuisce a costruire la nostra identità individuale e
collettiva, contrassegnando l’appartenenza a una cultura o a un gruppo. Nelle società
primitive, per esempio, i guerrieri non mangiavano il coniglio, per timore di
perdere il proprio coraggio, vedendo questo animale come simbolo di codardia,
mentre ancora oggi la carne rossa è sinonimo di vigore. Emerge pertanto che l’uomo,
pur potendo teoricamente e fisiologicamente mangiare quasi tutto, privilegia determinati alimenti e ne
vieta o rende indesiderabili altri. In questo suo atteggiamento si può leggere
una sorta di paradosso di tipo psicologico, comportamentale e cognitivo
che risiede nell’oscillazione tra prudenza, paura dell’ignoto, resistenza
all’innovazione (neofobia) e tendenza all’esplorazione, bisogno del cambiamento,
della novità, della varietà (neofilia). Il richiamo verso un nuovo alimento
genera in noi un senso di ansia, un’angoscia che può però esser superata grazie
all’azione mediatrice della cucina.
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